sabato 13 novembre 2010

Aristotele: etica e politica

Aristotele: etica e politica
cenni essenziali


Le opere a cui Aristotele affida la riflessione sull’etica e sulla politica sono: Etica nicomachea, Etica eudemia, Grande etica e Politica.
L’etica e la politica - come si sa - sono considerate scienze pratiche e, a differenza di quelle teoretiche, non vedono nel raggiungimento della verità il loro scopo. Non permettono, pertanto, di acquisire conoscenze in senso proprio: si prestano più che altro come riflessione intorno al comportamento dell’uomo considerato sia nella sua esistenza individuale (etica) sia in quella collettiva (politica).
Il comportamento umano, sotto il profilo etico-politico, è orientato alla ricerca della felicità: questa è la conclusione preliminare cui giunge Aristotele «filosofo morale». Quando l’uomo sarà davvero felice? Quando avrà improntato la sua esistenza sulla forma essenziale che gli è propria: razionalità e socialità, dal momento che Aristotele fornisce una precisa definizione: l’uomo è animale razionale e sociale. In altri termini, come si dice che la virtù dell’aquila è la vista e quella del ghepardo la velocità, così le virtù dell’uomo sono la ragione e la capacità/necessità (l’uomo non potrebbe sopravvivere senza l’aiuto reciproco) di vivere in consorzio con altri uomini. Se, però, nel caso dell’aquila e del ghepardo usiamo il termine virtù per indicare quella caratteristica che distingue necessariamente tali esseri, i quali pertanto non hanno alcun merito morale nel veder bene e nel correre velocemente, nel caso dell’uomo la virtù (aretè) coincide col merito morale poiché presuppone una scelta e un impegno. In sostanza: pur essendo predisposto da natura alla ragione e alla socialità, non sempre l’uomo le persegue fattivamente. Questa circostanza va spiegata ricorrendo a quanto Aristotele sostiene nella Psicologia: l’intelletto umano è solo potenzialmente capace di attingere la conoscenza più nobile (quella concettuale, filosofica); predisporsi a tale scopo significa cercare di superare la parzialità della conoscenza sensibile pur riconoscendola propedeutica. In un certo senso, il primo compito morale dell’uomo è rendersi disponibile, con l’esercizio e la buona volontà, ad accogliere la luce divina che impreziosisce la sua anima, ad “ascoltare l’attività dell’intelletto”. Come l’anima dell’uomo in parte è divina, così, in parte, è animale (anima vegetativa e sensitiva). Coltivare la prima significa anche rinunciare - o quanto meno mitigarli - agli appetiti egoistici e istintuali della seconda e dunque proiettarsi altruisticamente a vivere in amicizia e collaborazione coi propri simili (essere sociale, politico: questo il senso).
In conclusione: le virtù dell’uomo morale saranno prima di tutto dianoetiche (diànoia=intelletto) o, per meglio dire, le virtù dianoetiche rappresentano la forma massima dell’etica che comprende dentro di sé tutte le altre virtù, da quelle politiche a quelle morali in senso stretto o etiche. Queste ultime, insomma, si giustificano e hanno un senso, in vista di quelle. Infatti s’è detto che coltivare la parte divina dell’anima significa per l’uomo non solo perseguire la conoscenza più alta ma anche mitigare gli appetiti (i desideri) egoistici e istintuali della sua bruta animalità: in quanto egoistici portano l’uomo a isolarsi dal suo simile e lo rendono infelice (poiché felicità è realizzare la propria natura socievole); in quanto istintuali, e perciò impulsivi, non meditati, portano l’uomo ad assumere atteggiamenti estremi. Le virtù etiche, allora, non sono che il giusto mezzo tra due estremi eccessivi: il coraggio, ad esempio, lo è rispetto alla viltà e alla temerarietà (una pecora, animale, può essere vile; un leone, animale, può essere temerario; un uomo, animale razionale, deve essere coraggioso). Un uomo che non regola il proprio comportamento secondo il principio del giusto mezzo dimostra di non riuscire a smarcarsi dagli aspetti più esasperati della sua animalità e sarà, perciò, condannato all’infelicità poiché mai potrà accogliere le verità supreme, fine ultimo della sua essenza, della sua forma sostanziale.
Per quanto riguarda, infine, la politica, Aristotele – in conseguenza di quanto detto finora – ritiene che il modo migliore di organizzare la vita comunitaria (la costituzione migliore) sia quello che garantisce al singolo uomo, purché greco e non forestiero, maschio e non femmina, libero e non schiavo, adulto e non bambino, 1) le condizioni per realizzare la vita perfetta secondo l’essenza propria, 2) giustizia e benessere. Del resto lo scopo specifico della vita associata è l’utilità per la sopravvivenza ma questa non è possibile se: a) non c’è giustizia distributiva: tutti gli uomini, eccetto i soliti forestieri, le solite donne, i bambini e gli schiavi, devono avere uguale possibilità di accesso alle risorse sia materiali sia onorifiche. Queste ultime saranno proporzionali ai meriti etici (e “dianoetici”) dei singoli. E b) se non c’è giustizia commutativa, ovvero se non si punisce colui che tende a muoversi fuori dalle regole stabilite a svantaggio del suo prossimo.
Come si può notare, pur non essendo l’etica e la politica due scienze teoretiche possono comunque definirsi scienze poiché muovono da una conoscenza scientifica della natura umana. Scientifica visto che per Aristotele scienza=conoscenza delle essenze, dei caratteri sostanziali degli esseri. Ma sono scienze pratiche dal momento che vogliono suggerire i modi dell’agire per raggiungere il fine dell’agire: la felicità. Il fatto che il fine dell’agire umano sia identificato nella felicità è tipico della cultura e della mentalità ellenica. Nel corso dei secoli questo punto di vista sarà contestato, discusso, superato (o accettato). Il fatto, poi, che felicità sia inoltrarsi nelle conoscenze più nobili (filosofiche!) è tutto da vedere, con buona pace di Aristotele (e tormento mio). Se infatti sosteniamo che non può esserci felicità senza piacere, siamo così sicuri che cedere agli istinti sia sempre così spiacevole? Aristotele è convinto che lo sia, sempre! (non ricorda un po’ il suo maestro?).



Seui, 19 dicembre 2008 Graziano Napolitano



N. B. Chi volesse approfondire questi argomenti sul manuale o su altra fonte non deve interpretare la fornitura di questa dispensa come un invito a non farlo!

N. B. Consiglio la canzone L’animale di F. Battiato come colonna sonora della vostra lettura.

e vorrei dirti: è meglio se sto solo. Ma l’animale che mi porto dentro vuole te. Non mi fa vivere felice mai…